RITA MASCIALINO, DAL ‘PASSERO SOLITARIO’ DI GIACOMO LEOPARDI: RIFLESSIONI

RITA MASCIALINO, DAL ‘PASSERO SOLITARIO’ DI GIACOMO LEOPARDI: RIFLESSIONI

La personalità degli umani, al di là della sua superficie nella prospettiva sociale, di convenienze e convenzioni, è quanto mai complessa se solo si procede anche di poco oltre il suo sembiante per così dire prima facie. Lo sviluppo del linguaggio con il labirinto di connessioni semantiche tra i cervelli muti e quello parlante, con gli scambi imprescindibili tra l’inconscio e il conscio – nella misura in cui quest’ultimo sia realmente tale – sta alla base della complessità ineguagliabile dell’identità di Homo sapiens. E in tale ambito una delle identità più interessanti è quella espressa nella fantasia, nell’arte, in special modo poetica, nella quale la fisionomia umana acquista tratti anche molto astratti per prendere un concetto mutuato dalle arti visive, pertanto spesso molto criptici. Facciamo un esempio con un paio di citazioni dal grande Giacomo Leopardi poeta e interprete.

Verranno illustrate alcune scelte lessicali operate da Leopardi nel contesto dei versi, ossia in pieno rispetto della semantica degli stessi.

https://www.repubblica.it/dossier/cronaca/turismo-2021/2021/04/26/foto/recanati_immagini_casa_leopardi-297989627/1/

Dal Passero solitario (L. Felici a cura di, Leopardi – Canti. Roma RM: Newton Compton editori s.r.l.: 1974: Edizione integrale)

 

‘D’in su la vetta della torre antica,

passero solitario, a la campagna

cantando vai finché non more il giorno;

ed erra l’armonia per questa valle (…)’

 

La proiezione di sé da parte di Leopardi nel passero è di immediata acquisizione e tutti gli scolari italiani ne vengono a conoscenza molto presto. Il solingo augellin del verso 45 si presenta subito all’inizio della composizione con fondamentali connotazioni del suo essere: canta in perfetta solitudine spargendo armonia su tutta la valle. Premetto alla spigolatura semantica una riflessione su un’affermazione di Leopardi nello Zibaldone (Trevi, Dondero, Marra a cura di: 1997), visto che è citata nella nota N. 1 (Felici 1974) a commento del primo verso del Canto. Viene qui riportata pertanto la citazione dallo Zibaldone numerata al 1789 (390): “Le parole lontanoantico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse”. Occorre rilevare per primo che tale commento leopardiano riguarda non il Passero solitario, bensì una stanza dell’Ariosto, per cui la diversità totale dei contesti non permetterebbe alcuna comparazione – tra l’altro l’aggettivo lontano, nello specifico contesto dei primi quattro versi il quale termina con un punto, non compare nel Passero, ossia non c’entra con il Canto in questione e l’averlo citato per spiegare la presenza dell’aggettivo antica riferito alla torre nel Passero non ha alcun senso in ogni caso. Non solo, per chiarire ancora il motivo per cui non si tengono in considerazione in generale i commenti  forniti in seno al metodo esegetico delle comparazioni tra autori e testi diversi segue un ulteriore esempio: il complemento finché non more il giorno del terzo verso viene addirittura comparato a che paia il giorno pianger che si more di Dante (Divina Commedia, Purgatorio VIII: 1-2), il quale verso si riferisce al suono della campana dell’Ave Maria serale, ciò che di nuovo non c’entra niente con il contesto leopardiano dove non sta nessuna squilla della sera anche se la torre può essere quella del campanile. Tralasceremo pertanto ulteriori cosiddette derivazioni da altri poeti in quanto non congruenti semanticamente con il testo e solo rilevate per l’uso di un aggettivo e di qualche termine isolati arbitrariamente dai contesti in cui si trovano, nonché aggiungendo invenzioni interpretative extra testo originale. Una precisazione, molto ovvia, in merito: i termini scelti dagli autori sono quasi sempre di uso molto comune, come non può essere diversamente, e i paragoni in base a termini isolati dal contesto semantico sono inevitabilmente e come minimo irrilevanti.

Dopo la premessa, veniamo alla semantica del primo verso del Canto di cui in questa spigolatura. Subito nel primo verso il paesaggio descritto si presenta come la vetta di una torre antica. Una vetta: il passero canta dalla cima più alta del luogo, ossia sta superiormente a tutti quanti abitano in basso la valle e non possono volare alto, bensì devono stare solo al suolo. Vetta che è anche antica. Ora questo aggettivo non è impiegato da Leopardi perché è piacevole, come sopra – non è assolutamente detto che i poeti siano sempre anche eccellenti interpreti di altri poeti o di se stessi. Tale aggettivo ha un senso, magari restato inconscio all’autore, comunque un senso preciso: la torre è antica ed è lì che il passero-Leopardi ha per così dire il suo nido, la sua casa. Una torre quale  simbolo principe di solitudine e di spazialità verticale, in altezza: antica in quanto ha una lunga storia dietro di sé e in sé, la storia della cultura – nel contesto il passero leopardiano si inserisce in un filone poetico che non sorge sul momento, in superficie o nel livello più basso possibile, la superficie, dove stazionano i più, ma che sorge su un passato lunghissimo fatto di poeti cui spetta il luogo più alto nell’arte. L’armonia del canto del passero e del poeta si diffonde nella valle, termine che associa la valle concreta, ma anche, sebbene remotamente, in una metonimia la già medioevale valle di lacrime quale simbolo dell’umanità intera, ciò che sta in piena sintonia con il concetto della vita in leopardi, consistente in pianto e dolore. L’armonia creata dall’arte, dalla poesia come canto supremo quindi si sparge nella valle concreta e metaforica dotata di rimandi alla sofferenza intrinseca all’esistere, un’armonia creata dal canto del passero leopardiano, dall’arte precipuamente poetica, non dagli abitanti che ne usufruiscono per come possono, vivendo a terra, nell’abbassamento che forma la conca della valle.

Veniamo adesso alla seconda spigolatura semantica:

 

‘(…) e intanto il guardo

steso nell’aria aprica

mi fere il Sol che tra lontani monti,

dopo il giorno sereno,

cadendo si dilegua (…)’

 

In questi cinque versi compare l’aggettivo lontani riferito non ad Ariosto – e possibilmente a chissà a quanti altri contesti –, bensì ai monti dietro i quali, metaforicamente, il Sole cade dileguandosi, perdendo la propria consistenza nella caduta, come disfacendosi, più esattamente liquefacendosi nel mare infinito dell’orizzonte ultimo così caro a Leopardi. A parte la bellezza anch’essa infinita del pezzo citato, ci occupiamo del termine steso, participio passato di stendere. Per il proprio sguardo leopardi ha avuto a disposizione la scelta fra stendere e tendere, che hanno per altro in parte una sovrapposizione sinonimica nell’uso comune: lo sguardo poteva benissimo essere teso nell’aria, non solo steso. Ovviamente, analizzando la semantica dei due possibili verbi nel contesto, sarebbe cambiata l’immagine e con essa il significato per come si è formato nella mente del poeta. Uno sguardo teso nell’aria verso il Sole, la cui luce è fatta di irraggiamento, di raggi, sopporta in posizione di forza e di tensione la metaforica ed erotica ferita di tali raggi obliqui del Sole, più dolci che al mezzodì. Ma Leopardi ha scartato – consciamente o inconsciamente non conta per l’identificazione del verace significato emerso ed espresso nei termini – la postura metaforicamente energica del suo sguardo e ha preferito la spazialità propria di stendere. Il suo sguardo si stende dunque femminilmente e accoglie i maschili raggi del sole quando non sono perpendicolari, quando sono meno violenti, al tramonto dove cadono obliqui, questo in un’espressione di erotismo caratterizzato da una dolcezza sconvolgente al punto che lo sguardo perde la sua tensione travolto dall’incontro con i raggi maschili in un amplesso di cui la mente di un grande Leopardi ha potuto godere nella sua ipersensibilità: i raggi feriscono non con violenza, ma attraverso il loro dolcissimo effetto, si tratta di una ferita, stando alla semantica del termine steso nel contesto, del più femminile godimento dovuto all’incontro con un maschile che si è privato della violenza ad esso connessa. Un dolore certo, pur sempre capace di fare male come dall’uso del verbo ferire, ma nel più acuto piacere dovuto all’accettazione della ferita. Nel commento riportato nella Nota N. 40 (Felici 1974) steso viene spiegato con che spazia, con cui viene spazzato via l’effetto emozionale più viscerale espresso nell’immagine, ossia il suo significato. Non solo lo sguardo di Leopardi si stende per accogliere i raggi del Sole, anche il Sole, l’elemento maschile e potente per eccellenza, perde, come accennato, la sua energia più infuocata per dissolversi in parte femmineamente nell’abbraccio più sconvolgente con lo sguardo leopardiano, pure maschile, ma fattosi in parte femmineo nell’accoglienza. Una brevissima nota linguistica: sole che nella lingua italiana è di genere maschile, mentre ad esempio in tedesco è femminile: più potente alla latitudine meridionale, più debole in quella nordica.

Un pezzo straordinario dell’erotismo leopardiano espresso nella speciale musicalità di molti suoi versi, qui straordinario per il gioco delle spazialità del femminile e del maschile, di Sole e sguardo, che cadono entrambi in una irresistibile corrispondenza per incontrarsi vicendevolmente in un eros la cui più profonda potenza toglie le forze ad entrambi gli amanti per così dire: il Sole cade e si dilegua, scompone i suoi raggi per così dire nella caduta, un po’ come se si togliesse l’armatura, lo sguardo è steso di fronte a un tale amore, non regge la connaturata postura tesa in un’unione sensualissima con la natura di un Sole come personificato assieme allo sguardo stesso. Questa interpretazione senza aggiungere, né togliere alcunché ai versi, ma solo analizzando gli stessi nella loro semantica poetica, artistica.

                                                                                                                          Rita Mascialino

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