RITA MASCIALINO, DIEGO A. COLLOVINI E ‘IL SORRISO DI ANTONELLO’: ANALISI E INTERPRETAZIONE

RITA MASCIALINO, DIEGO A. COLLOVINI E ‘IL SORRISO DI ANTONELLO’: ANALISI E INTERPRETAZIONE

Il sorriso di Antonello (2021, Campanotto Editore, pp. 169) è un romanzo storico di Diego Antonio Collovini (Portogruaro VE), laureato in Filosofia, critico d’arte, già docente di Teoria e Storia del Restauro all’ABA di Venezia, attualmente docente di Storia dell’Arte Moderna all’ABA G. B. Tiepolo di Udine, redattore capo della Rivista d’Arte Contemporanea news, tra i molti ulteriori incarichi rilevanti negli ambiti di competenza.

Si tratta di un’opera di spessore, che si inserisce nelle pubblicazioni della Casa Editrice Campanotto diretta da Carlo Marcello Conti, un editore al vaglio del quale sta al primo posto la qualità delle opere di chi voglia pubblicare con i suoi tipi.

L’argomento è svolto con coraggio che potremmo definire Umanistico, il raro e prezioso coraggio della verità, un coraggio non proprio comunemente reperibile sul mercato culturale, in tutti i tempi, anche in quelli attuali. Un coraggio, per restare nell’epoca in cui si svolge il romanzo, pagato dagli Umanisti a prezzo di persecuzioni, torture, strozzamenti, strangolamenti, avvelenamenti, roghi, nel periodo in cui ha regnato la Chiesa ovunque sia stato possibile esercitare il suo dominio o far valere le sue alleanze. L’opera di Diego A. Collovini, frutto di seria ricerca storica e documentatissimo per tutti i fatti narrati, si ambienta proprio nel Cinquecento, secolo in cui la Controriforma aveva serrato i ranghi del regime teocratico, rafforzando il servizio di controllo dei popoli, soprattutto sottoposti alle indagini del Tribunale dell’Inquisizione o Santa Inquisizione o Santo Uffizio, organo della Chiesa Cattolica per contrastare e sopprimere la libertà di pensiero con i sistemi di cui sopra, culminanti nella pena di morte – per altro, aggiungiamo, con la benedizione di San Tommaso d’Aquino, un celebre santo e per così dire filosofo che già aveva approvato l’istituto della condanna a morte.

Le vicende narrate nel romanzo sono ambientate principalmente in Friuli e a Venezia e trattano del governo della Chiesa di Roma e della lotta senza quartiere di questa contro chi la pensasse diversamente da quanto essa consentiva all’umanità sottoposta al suo dominio assolutistico. Diamo qualche breve esempio delle vicende narrate, numerose e con molti dettagli. L’opera riguarda tra l’altro i due arresti del mugnaio Domenico Scandella detto Menocchio (Montereale Valcellina 1532-Portogruaro 1599), bruciato vivo sul rogo acceso nel 1599 per lui a Portogruaro su processo e condanna dell’Inquisizione per l’accusa di eresia, processo e condanna gestiti dal cosiddetto inflessibile e incorruttibile frate francescano Hieronimo Asteo,  friulano – i francescani avevano essi stessi chiesto alla Chiesa di poter far parte dell’Inquisizione affiancandosi ai domenicani per dare una mano nella caccia agli eretici, ai liberi pensatori, ai pensatori, nelle inquisizioni e condanne. L’ordine era stato emanato da Clemente VIII Papa per mezzo del cardinale Santori, anch’egli molto solerte e rigoroso nella persecuzione degli eretici, così da dare un esempio efficace al popolo, affinché non si azzardasse ad esprimere liberamente opinioni sulla religione e qualsiasi opinione di qualsiasi genere la Chiesa Cattolica Romana ritenesse una possibile o potenziale minaccia per il suo potere dittatoriale sulle menti dei sudditi, sui popoli, come l’Autore mette in evidenza senza alcun fervore di parte benché eventualmente giustificato, bensì lasciando parlare pacatamente i fatti tremendi e l’atmosfera di paura che si respirava all’epoca. Nel romanzo viene ricordata, tra le altre, anche la tragica vicenda del filosofo Giordano Bruno (Nola 1548-Roma 1600) bruciato vivo sul rogo a Roma, un anno dopo il rogo di Menocchio a Portogruaro – in aggiunta, a Giordano Bruno, denudato e legato al rogo, era stata conficcata nella lingua con un uncino la famigerata mordacchia, in uso nella Santa Inquisizione ecclesiastica, la quale mordacchia impediva al condannato di emettere qualsiasi suono mentre bruciava costringendolo a ingoiare il suo sangue e aggiungendo inaudita sofferenza al già insopportabile rogo a fuoco lento, emblematicamente: impediva di parlare, quale monito per coloro che si arrogassero la libertà di poter esprimere liberamente il loro pensiero, di parlare.

Diegeticamente, Collovini ha scelto un narratore artista – in cui si proietta per molte idee esposte –, Anzolo da Portogruaro – di cui si conosce solo una Pala d’altare da lui dipinta nel 1605 e raffigurante Sant’Elena e il ritrovamento della croce, ora nel Duomo di Valvasone nel pordenonese –, il quale, ormai vecchio, racconta ricordando, ciò che pone al centro dell’opera il ruolo della memoria come struttura stessa della narrazione, intrecciandola di riflessioni sull’epoca, sui fatti storici, sulla vita in generale. Collovini utilizza opportunamente sparsi nel romanzo termini, frasi o dialoghi in veneto – oltre che pezzi in latino debitamente tradotti –, i quali rendono ancora più viva e concreta l’umanità del tempo conducendo il lettore più addentro nel lontano secolo. Il passato rievocato dall’Autore non scade mai a cronaca di dati storici giustapposti, bensì risorge nei ricordi del narratore, nel dialogare e riflettere dei vari personaggi, ciò che si deve all’abilità di Collovini che mai confonde il romanzo con il saggio storico o la citata cronaca, al contrario andando manzonianamente oltre la superficie dei fatti per penetrare in profondità nella verità dei fatti stessi come è – o sarebbe – compito precipuo di un romanzo storico all’altezza del genere. Il sorriso di Antonello di Diego Antonio Collovini è all’altezza di quanto richiede un romanzo storico d’eccellenza e riesce così a dare un quadro dell’epoca approfondito sia nei fatti, che sono per parte loro sempre realmente accaduti, sia nei sentimenti e nelle mete che hanno funto da base ai fatti e da motori dei fatti, semplificando in sintetico giudizio: mete e sentimenti buoni e mete e sentimenti malvagi.

L’Autore inserisce a cornice della narrazione una molto rilevante quanto originale prospettiva: di fatto il titolo non si richiama direttamente a Menocchio o alla sua storia, come altre, poche, opere che riguardano la tragica vicenda, bensì si richiama direttamente all’artista Antonello da Messina (Messina 1425/30-Messina 1479), al sorriso sottilmente ironico e saggio che irradia dal Ritratto di ignoto marinaio, come se questo, pur dovendo tacere, capisse e giudicasse dentro di sé le nefandezze e stoltezze dell’epoca. Il fulcro ideologico dell’opera si esprime dando uno scorcio dell’arte nel periodo storico della Controriforma attuata nel Concilio di Trento dalla Chiesa che con i suoi preti, vescovi e cardinali nonché amici vigilava, come consuetudine per altro in tutte le dittature, anche sugli artisti ovunque essa sospettasse possibili trasgressioni ai suoi dettami nell’esecuzione dei soggetti religiosi assegnati, con ciò rendendo difficile e pericoloso l’esercizio dell’arte. Il sorriso di Antonello è posto da Diego Collovini a emblema di come nell’arte visiva si esprima la visione del mondo degli artisti con maggiore evidenza che con le parole le quali più facilmente possono ingannare o essere fraintese. Tutto ciò è messo molto chiaramente in evidenza nei dialoghi e nelle riflessioni dei personaggi che approfondiscono sia la rischiosa esistenza dell’umanità nel regno retto dall’ideologia di potere teocratico della Chiesa, poggiante sul diritto divino di primitiva  origine, sia le difficoltà in cui si muovevano gli artisti stessi per non essere perseguitati, processati e messi al rogo dall’Inquisizione ecclesiastica, ma che riuscivano comunque a esprimere i loro pensieri sulla religione, sul papato, sui potenti, proprio grazie alle caratteristiche intrinseche alla visibilità delle loro opere, visibilità per definizione impossibile a non vedersi, ossia grazie al fatto che più agevolmente si poteva capire il significato delle immagini perché alla portata della vista di tutti. A proposito delle citate difficoltà in cui si muovevano gli artisti all’epoca, diamo qui un breve esempio in cui sono citati alcuni passi del verbale del processo istruito nel 1573 contro Paolo Caliari detto il Veronese (Verona 1528-Venezia 1588) dal Santo Uffizio veneziano, alias Tribunale dell’Inquisizione, relativamente all’ampio telero tripartito Cena in Casa Levi. L’Ultima Cena con l’istituzione dell’eucaristia, al centro dell’opera, è contornata lateralmente da due tavolate di persone festose che mangiano lietamente, in piena gioia di vivere, magari anche in qualche misura senza troppi ritegni. All’Inquisitore parve che vi fossero dei segni di poco rispetto dei principi religiosi, dell’istituzione dell’eucaristia stessa, tra l’altro la presenza ritenuta sconveniente di un ubriaco, di un nano scherzoso, lo stesso modo di mangiare libero al di là del bon ton, o il fatto che non tutti fossero lì a guardare tristi e fissi Cristo che in questa vasta tela, secondo il Giudice ecclesiastico, avrebbe vista irrisa la sua divina regalità. Il Veronese, abile artista e intelligente uomo, si era difeso dandosi esplicitamente dello stolto, della persona che non capiva molto, dell’ignorante. Così ci si difendeva dalle accuse, facendosi magari passare per stolti. In ogni caso, già l’aver posto l’Ultima Cena di Cristo insieme e parallelamente ad altre due tavolate in cui tutti mangiavano e bevevano senza troppi freni in allegria, toglieva di per sé ed evidentemente sacralità all’istituzione dell’eucaristia, una cena dunque che il grande Paolo Caliari presentava insieme ad altre tavole imbandite, togliendo con ciò stesso il senso del divino all’evento reso del tutto umano tranne che per l’aureola di Cristo, che ottiene nel contesto un senso quasi o soprattutto risibile. Il Veronese riuscì a cavarsela nel processo smontando da sedicente ignorante i sospetti dell’Inquisitore, non così il mugnaio Domenico Scandella, che pure tentò, con meno tatto del Veronese, di farsi passare per stolto e ignorante – era, seppure uomo del popolo, colto e intelligente, sapeva che sarebbe finito male con la Chiesa, ma non riuscì a piegarsi davanti agli ecclesiastici, al Papa, agli Inquisitori e preferì morire bruciato vivo piuttosto che abbassare la testa. La sua critica al pensiero religioso diffuso dalla Chiesa per il proprio potere era sostanziale: la Madonna era donna adultera e di dubbia morale – detto anche con il termine forte che riporta l’Autore a testimonianza delle parole di Domenico Scandella –, i santi erano invenzioni dei preti per spillare denari ai popoli, Cristo non era il  figlio di Dio, il dogma della Trinità una corbelleria assurda e così via in una dissacrazione radicale dei fondamenti della religione cristiana, cattolica. Menocchio, a prescindere dal suo maldestro tentativo di farsi passare per stolto, non rinnegò comunque mai il suo diritto al libero pensiero e al dubbio – Galilei invece, come si sa, di fronte alla minaccia della tortura e dell’inevitabile rogo che lo aspettavano se non avesse abiurato, disse, costretto in ginocchio davanti agli ecclesiastici, che si era sbagliato nelle sue scoperte sul sistema solare, sui pianeti di Giove, sul moto della Terra, ciò che andava contro quanto la Chiesa continuava a far credere ai credenti, ossia il sistema geocentrico cosiddetto tolemaico con le sfere di cristallo e le stelle fisse, con la Terra immobile per volontà divina appunto al centro di tutto l’Universo. Ma la connotazione della Chiesa presentata da Collovini riguarda anche molto direttamente la personalità degli ecclesiastici, dipinti e descritti per quello che erano. Tra l’altro, il narratore delle memorie Anzolo-Collovini di cui si compone il romanzo così si esprime (74-75, 107):

 

“(…) La vita, questa mia lunga vita, mi ha insegnato che la storia valuta gli uomini e che il narcisismo, l’eccesso di autostima o il vaneggiamento di onnipotenza, ostentato da tanti dozzinali priori di campagna, hanno cancellato la memoria di persone degne di essere ascoltate. Ai pittori il compito di lasciare la traccia di quelle facce così vuote, prive di alcuna memoria morale (…) Nessuna idea muore con l’uomo. Moriamo ma non per sempre, poiché, come anime fluttuanti nell’universo del tempo, le idee si mantengono in vita (…)”

 

Certo, ma perché le idee non muoiano è anche necessario che vi siano uomini, come Collovin è uno di questi, che riflettano sulle idee facendone memoria, perché non si dimentichi chi ha fatto strada all’uomo moderno perdendo la stessa vita nella lotta per la libertà di pensiero inscindibile dall’uso della ragione, per il diritto dell’uomo alla conoscenza. Memoria, perché non venga obliato il sacrificio dell’uomo per un esistere dignitoso o più dignitoso delle generazioni future, non in ginocchio davanti a poteri totalitari, crudeli e oscurantisti contro la giustizia, contro l’umanità pur di stare al potere, spegnendo il diritto alla parola nella soppressione della vita dei coraggiosi dissenzienti.

In questa importantissima ed essenziale area della memoria dell’uomo, finalizzata a contrastare la  possibile contraffazione dei fatti storici approfonditi nella loro verità, si colloca il romanzo storico Il sorriso di Antonello di Diego Antonio Collovini, incorniciato dalla altrettanto importante riflessione sulle arti visive quali testimoni silenti e veritiere della realtà dell’uomo, dei vari poteri e delle persone che li rappresentano, arti visive intese come narrazione, sul piano iconico, della storia delle epoche e della più profonda psicologia dell’uomo. Così, sulle numerose vicende narrate con dovizia di particolari rilevanti dall’Autore splende beneaugurante per l’umanità il sorriso dell’arte a sostegno della vita dell’uomo sulla Terra.

                                                                                                                                                                                       Rita Mascialino

 

 

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