RITA MASCIALINO, SUL CANTO “A SE STESSO” DI GIACOMO LEOPARDI: ANALISI E INTERPRETAZIONE
RITA MASCIALINO, SUL CANTO “A SE STESSO” DI GIACOMO LEOPARDI: ANALISI E INTERPRETAZIONE
Il canto A se stesso non è ritenuto in linea di massima un’opera importante tanto quanto i grandi canti di Giacomo Leopardi. Unitamente all’intero Ciclo di Aspasia (1833-35) consistente di cinque componimenti, esso viene non di rado considerato un’opera per così dire, se non minore, tuttavia di sfogo del poeta per la vicenda infelice del suo amore per la contessa Fanny Targioni Tozzetti che non avrebbe corrisposto alla sua passione o forse per altra donna come qualcuno sostiene. Tale ciclo mostra di fatto qualche punta polemica ed anche di non lieve disprezzo per la donna che non avrebbe apprezzato l’amore del poeta perché incapace di capirlo con la sua mente ristretta, nonché per la donna in generale, valutata come meno intelligente dell’uomo e via dicendo – lo stesso nome di copertura Aspasia non è inteso come omaggio per il genere femminile. Si tratterebbe per tutti questi motivi di un ciclo in complesso di afflato minore rispetto alla grande produzione poetica leopardiana ed in verità la considerazione banale e ingiusta della donna ed anche e soprattutto certe espressioni di acritica visione delle donne e degli uomini, della donna e di se stesso, presenti in particolare nelle altre composizioni, non fanno proprio onore a Leopardi. Tuttavia il canto A se stesso, se se ne analizzi non pragmatisticamente il linguaggio, ossia se lo si interpreti non secondo quanto la propria soggettività può superficialmente suggerire, bensì secondo lo schema della sua Spazialità Dinamica (Mascialino) per quanto emerge oggettivamente, si rivela per un componimento a buon diritto appartenente alle grandi opere poetiche leopardiane. Interessante sarebbe la comparazione, che qui non si tratta, con i tre sonetti di Ugo Foscolo dedicati a se stesso, uno dei quali con il medesimo titolo di quello leopardiano, dai quali Leopardi ha tratto qualche suggestione la quale resta tuttavia su di un piano del tutto esteriore, di fatto le liriche restano molto diverse fra di loro dati i contesti altrettanto diversi relativi alla personalità dei due poeti.
Premettiamo la citazione del testo dell’opera (Leopardi in Felici 1974: 177-78):
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
La frase, che in questa Riflessione viene interpretata diversamente dalla tradizione e che muta il significato della poesia, è quella espressa in due versi, il secondo ed il terzo entrambi a metà, come due emistichi in enjambement proposizionale: “Perì l’inganno estremo,/ch’eterno io mi credei.” L’interpretazione tradizionale e corrente identifica nel termine “inganno estremo” la passione non corrisposta di Leopardi per la donna, probabile Targioni. In questo contesto interpretativo il termine “inganno” risulta essere un tropo del tipo della metonimia, ossia starebbe per l’effetto o la causa della non corrisposta passione amorosa del poeta. Quanto alla forma verbale “io mi credei”, essa viene interpretata tradizionalmente come eloquio sul tipo di “Mi son pensato bene di starmene zitto” “Mi son mangiato un bel panino” o “Me la sono vista brutta” e via dicendo, per usare un termine tecnico: come diatesi media del verbo. La diatesi, per ricordare, è la disposizione del verbo relativamente agli effetti dell’azione sul soggetto e gli altri partecipanti in qualche modo all’azione, può essere attiva, dove il soggetto compie l’azione; passiva, quando l’azione compiuta da altri ricade sul soggetto della frase; media, quando gli effetti dell’azione pur attivamente agìta dal soggetto ricadono sul soggetto stesso, ad esempio come nei verbi riflessivi e pseudo riflessivi. La diatesi media è quella tra le tre citate che dà maggiore risalto psicologicamente a chi agisce nella circostanza, ossia enfatizza chi compia l’azione e come la compia. Nella diatesi media del verbo in questione il pronome “mi” è una specie di complemento di termine, come ad esempio in “Mi lavo le mani” dove il mi non è il complemento oggetto come in “Mi lavo”, bensì è un complemento di termine: “Io lavo a me le mani”. Tale uso pseudo riflessivo del verbo si può applicare anche per altri verbi che non hanno propriamente l’uso riflessivo, tipo appunto gli esempi sopra citati “Mi son pensato” etc. nella forma: “Io ho pensato a me di” etc., ovviamente non correttissima, di uso familiare o adatta ai modi dire tipici ormai solo del quotidiano, se si vuole osservare la corretta espressione grammaticale e l’eleganza di stilistica. In questo contesto esegetico tradizionale Leopardi si sarebbe dunque creduto/pensato che l’inganno fosse eterno, diatesi media che rafforza il pensiero di Leopardi come suo proprio, quasi fosse chiuso in se stesso. L’inganno, come già accennato, si riferisce all’illusione amorosa di Leopardi ed anche, si può ritenere, all’inganno che Aspasia avrebbe perpetrato nei suoi confronti illudendolo in qualche modo e misura. L’aggettivo “estremo” si riferirebbe ad un inganno recente, estremo nel senso di ultimo, di più vicino o di finale, ma anche di particolarmente intenso. Soprattutto da evidenziare nell’interpretazione tradizionale: ad essere stato ritenuto estremo ed eterno sarebbe proprio l’inganno amoroso di Leopardi che avrebbe voluto quindi, tirando le conseguenze, che l’inganno non terminasse mai, che continuasse in eterno, ovviamente come inganno, così che il poeta potesse fuggire la realtà delle cose per sempre, in eterno. Per ricapitolare l’interpretazione corrente: Leopardi si ingannò in modo estremo o ultimo o più recente, credendo appunto di potersi illudere o ingannare in eterno, invece sopraggiunse la delusione a fargliela finire, ossia Leopardi non riuscì a tenere duro nel volersi ingannare ad oltranza, alla fine riuscì purtroppo a capire che era meglio smetterla e ciò portò la rovina nella sua vita proiettata in quella di tutta l’umanità, come se la delusione amorosa in Leopardi potesse togliere ogni senso alla vita non solo per lui, ma per tutti nello stesso modo. Questo, nello schema semantico molto essenziale sotteso alle azioni, sarebbe il significato del pezzo secondo l’analisi tradizionale.
Andando negli schemi più profondi che sostengono la semantica del linguaggio, la Spazialità Dinamica da questo convogliata appare per certi aspetti importanti altra. Partiamo dalla diatesi verbale che più in profondità appare come diatesi non media come sopra, bensì come diatesi attiva, nella quale il “mi” è il complemento oggetto della frase “ch’eterno io mi credei”, in parafrasi sempre del tutto schematica: è morta ormai l’illusione che mi son creduto eterno, ossia che ho creduto me eterno, dove “eterno” è il complemento predicativo in sintagma aggettivale del complemento oggetto me. In tale interpretazione la poesia si realizza del tutto coerentemente tra i due poli opposti di illusione e desiderio di eternità da un lato e reale vita breve e morte dall’altro. Di fatto in tale poesia non si parla per nulla – o se ne parla solo in implicita e per altro indiretta eco – del possibile inganno del poeta che si era illuso che la Targioni lo potesse amare né dell’eventuale inganno della Targioni nei suoi confronti la quale lo avrebbe illuso – la Targioni in realtà non illuse mai Leopardi, bensì non corrispose mai ai suoi sentimenti, ciò chiaramente e senza inganni, l’illusione e la speranza furono tutte e solitariamente leopardiane e Leopardi stesso ammette in altra poesia del ciclo che la Targioni mai lo ingannò facendogli credere di corrispondere alla sua passione, di più: Leopardi fece anche da tramite tra lei e l’amico Ranieri di cui la donna si era invaghita, per cui l’inganno tra lui e la Targioni non esistette mai. In questa seconda e nuova interpretazione l’inganno viene sì collegato alla passione erotica che sorge in riferimento all’attrazione per una persona, ma non riguarda l’illusione di Leopardi, né l’eventuale inganno della Targioni, bensì appunto riguarda lo stato di grazia conseguente all’eccitazione amorosa tanto intensa come si evidenzia dal significato del secondo emistichio “ch’eterno io mi credei”, che appunto il poeta credesse sé eterno, invincibile, signore della morte stessa, questo data la pienezza di vita sperimentata. In altri termini: questo stato di grazia così intenso dovuto all’erotizzazione si può distribuire oltre i limiti sessuali in altri ambiti quali soprattutto, trattandosi di sensazione di estrema potenza, in quello della vita stessa che può diventare tanto potenziata da produrre, per pochi attimi o più a lungo, comunque finché duri, l’illusione di superare la morte addirittura, ossia può dare appunto l’illusione di eternità. Nel canto Il pensiero dominante facente parte pure del Ciclo di Aspasia l’eccitazione erotica maschile viene messa direttamente in relazione all’eternità, al superamento e all’oblio della morte, ossia il pensiero dominante si rivela per quello relativo all’eccitazione erotica suscitata dalla bellezza della donna, della Targioni. È questo stato definito da Leopardi divino che non gli fa più temere la morte, che gli dà il senso di immortalità o eternità, come esplicitamente dai versi in cui parla dello stato amoroso come di uno stato simile a quello degli dei immortali, appunto aventi in quanto tali la vita eterna. Tornando al componimento su cui si sta riflettendo qui, specialmente in un uomo malato come Leopardi e molto vicino ormai alla morte, un’eccitazione amorosa tanto passionale e tanto compressa, quindi più che mai potente perché irrealizzabile ed irrealizzata, inibita nei fatti, dovette dargli l’esperienza illusoria quanto intensa – o appunto estrema – di vita nella massima potenza, l’illusione più forte di tutte, quella oltre la quale non vi è illusione maggiore essendo essa appunto l’illusione di essere così forte da poter vivere in eterno, ciò in un’iperbole derivata dal senso di estrema euforia connesso alla propria potenza maschile, mai sperimentata prima in egual misura. Si provino a leggere i due emistichi “Perì l’inganno estremo,/ch’eterno io mi credei” nei due modi relativi alle due interpretazioni, quella corrente e quella nuova che qui si è proposta. Nella prima lettura il tono è quello della delusione, del rammarico e dell’amarezza per essersi ingannato, del pessimismo depressivo, di una rabbia o di una stizza anche, così che il secondo emistichio si colloca inevitabilmente nel corrispondente spazio ristretto e anche di velato disprezzo per l’esperienza della delusione d’amore. La presenza della spazialità dinamica convogliata dall’aggettivo “eterno”, la più ampia spazialità temporale possibile, viene dunque collegata ad un inganno come nella spiegazione di cui più sopra e l’inganno come concetto in sé o di ambito amoroso non riverbera niente di eterno – un inganno eterno non può avere nulla di grande, rientra solo nei modi di dire iperbolici del quotidiano. Nella seconda lettura, l’ultimo emistichio “ch’eterno io mi credei”, ossia parafrasando ancora che Leopardi in piena potenza erotica si sentisse eterno, si carica di struggente nostalgia correlata ad un grande sentire, ad una grande passione di vita, così che si può immaginare che esso venga proferito con grande effluvio di sentimenti, quelli della passione più potente, così che l’aggettivo “eterno” esprime nel modo più consono la sua risonanza di grandezza incommensurabile cui il canto disperato di Leopardi è del tutto adeguato. Si tratta di un’iperbole, ma non più inserita negli angusti limiti del linguaggio quotidiano, bensì inserita nello spazio semantico dei sentimenti assoluti, immensi, senza barriere e compromessi, generosi, come lo sono sempre nell’opera di Leopardi.
Dopo la caduta della tanto potente eccitazione, tale da far sentire eterno il poeta per quanto illusoriamente, resta la realtà della non eternità, della brevità della vita e del fatto che la morte vanifichi ogni cosa, la vita stessa, di cui tratta tutta la poesia coerentemente con la dimensione individuata in questa nuova interpretazione. Stanco di tanto vano palpitare per passioni e cose grandi, il cuore del poeta viene invitato dallo stesso a posare/riposare per sempre, senza più illusioni di potenza, senza la più estrema illusione di potenza, quella relativa ad avere la vita degli dei, eterna, immortale. Una poesia questa che, in base alla diversa interpretazione che fa capo soprattutto ai due emistichi citati, non si svolge tra i poli dell’inganno amoroso e dell’illusione e delusione amorosa del poeta, ma tra i poli del desiderio di eternità della vita suscitato dallo stato di eccitazione erotica e la realtà della morte introdotta dalla cessazione di tale eccitazione.
A che cosa serva capire o cercare di capire il più profondamente possibile la poesia in generale e questo canto di Leopardi in particolare, è di tutta evidenza: nel caso specifico si viene in contatto con un’espressione di sentimenti che alla maggior parte delle persone resterebbero ignoti – non tutti sono poeti, non tutti sono Leopardi –, chiusi nell’inconscio così che senza i poeti non affiorerebbero mai alla consapevolezza se non nello piccolo spazio di qualche flash intuitivo senza seguito, senza approfondimento o di qualche riflessione anch’essa di piccolo raggio. La poesia di Leopardi reinterpretata dà uno scorcio eccezionale dell’opposizione tra amore e morte, tra vita breve ed eternità, tra quanto di bello può dare la vita sostenuta dalla passione dei sentimenti più intensi e quanto di tremendo può dare la vita senza passione di sentimenti, equiparabile già alla morte. Bastano i due emistichi letti secondo la nuova interpretazione qui offerta perché il lettore si senta lanciato in uno spazio-tempo psicologico proprio del viaggio cosmico più emozionante e stimolatore – nonché del tutto leopardiano – con la conseguenza di arricchire la sua visione del mondo in una prospettiva altrimenti irraggiungibile nel ristretto quotidiano, di dare ai suoi sentimenti una boccata di ossigeno come si respira dalle più alte vette, di collocarli in paesaggi più consoni ad essi di quanto conceda il quotidiano finalizzato al solo riscontro con il reale concreto e materiale.
Per finire, solo ancora un cenno sulla polarità di amore e morte: l’aggettivo eterno in questo contesto spazio-temporale riferito a Leopardi stesso, come abbiamo mostrato, si sovrappone all’ambito della morte superandolo. Ma questo aggettivo, come non può essere altrimenti trattandosi di un termine linguistico, è polisemico: accanto alla bellezza di una vita immortale, sta il contesto umano, nel quale esso indica l’eternità come contrario dell’immortalità, come dimensione di oltre vita, di morte, e, collegato all’eccitazione erotica, di deliquio dei sensi appunto tanto estremo, da essere anelito di morte in quanto dissoluzione della forma nell’infinito come massimo tra i piaceri. Ma di questo non è il discorso in questo breve studio.
Rita Mascialino